Lo sguardo sul cinema di un giovane regista
Abbiamo fatto qualche domanda a Simone Bozzelli, che fa parte della giuria che valuterà i cortometraggi in concorso nell’edizione 2019 di The Next Generation, per conoscere il suo sguardo sul cinema e sui festival.
Simone Bozzelli (1994) ha scritto e diretto i cortometraggi Mio fratello (2015), Loris sta bene (2017) – presentato al Lovers Film Festival e in numerosi festival nazionali e internazionali – e Amateur (2019), selezionato dalla Settimana Internazionale della Critica della Mostra del Cinema di Venezia.
Come ti approcci alla creazione di un’opera e in quale direzione sta andando la tua ricerca?
Tutto ha inizio con lo sguardo della realtà. Del resto, realizzare un film, o comunque un’opera audiovisiva non è altro che dare la propria visione all’interno di un quadro – per convenzione in 16:9 – sulla realtà. Parto da un personaggio, una storia, un evento, una domanda che la realtà mi propone, che non per forza deve essere romanticamente la situazione che vedi in metropolitana: la domanda può nascere dalla visualizzazione di una storia di Instagram o dalla lettura di un post o di un articolo di giornale. La cosa che mi chiedo sempre prima di scrivere è se sto dicendo qualcosa che potrei raccontare solo io, è questa è la prima domanda che mi faccio. Se penso che il punto di vista che ho su una situazione, su un mondo, non è originale, ecco, non lo prendo in considerazione.
È veramente difficile per me dire in che direzione sta andando la mia ricerca proprio perché la cosa che pretendo da me è sempre quella di sorprendermi e di cambiarmi, soprattutto nello stile visivo. Ho paura di teorizzarmi o peggio ancora di trovare la ricetta di uno stile, e per questo scompiglio sempre le carte, vario sempre dal punto di vista formale. Per esempio, mi ero reso conto, negli ultimi corti, che stavo prendendo una direzione molto formale, molto posata, stavo diventando sempre più bravo a fare le cose precisine, con i colori giusti… e allora ho detto “No, devo rompere questa cosa” e ho girato un corto per metà con il cellulare, che è – penso – la cosa più “sporca” e meno formale possibile.
Quali sono per te le potenzialità espressive del cortometraggio? E i suoi limiti?
Il cortometraggio è un formato in cui mi sono trovato sempre un po’ scomodo perché realizzare un cortometraggio è molto difficile. È molto difficile dal punto di vista dello spettatore: lo vedo ai festival, o quando viene proiettato un cortometraggio al cinema, e lo noto anche su me stesso come spettatore di cortometraggi. Il cortometraggio ti mette in una posizione scomoda, perché da una parte, sei lì seduto e hai lo stesso tipo di fruizione che hai di un film, però, non gli concedi i tempi del film: se c’è una pausa un po’ più cinematografica, una tempistica un po’ più cinematografica il cortometraggio ti annoia. Al tempo stesso, se il corto ha un ritmo troppo concitato non gli dai valore cinematografico perché è una scenetta, una situazione… Quindi è difficile sia realizzare cortometraggi che essere spettatore di cortometraggi, secondo me.
Nonostante questo, mi rendo conto che prima di tutto sia sicuramente un territorio di sperimentazione interessantissimo e di preparazione al lungometraggio, sebbene questa affermazione possa essere un po’ impopolare. Nel senso che rispetto a coloro che sostengono che il cortometraggio sia proprio un’arte a sé io dico ni, sì e no. Io voglio fare cinema, voglio trattare narrazioni lunghe, cioè creo dei personaggi che meritano un mondo più vasto di 10 minuti. Detto ciò, si possono fare sicuramente dei capolavori con dei cortometraggi. Senza dubbio i cortometraggi fondamentalmente permettono tante strade espressive: per me le due principali sono quella del formato, quella delle opere che io chiamo quasi “ad orologeria”, quei cortometraggi, magari anche di 6 minuti, ma che sono una macchina perfetta: hanno un inizio, una fine e non può essere nient’altro. L’altra via è quella dei corti che sono quasi più uno studio di personaggio, uno studio quasi di lungo: magari sono delle scene, due, tre, che sembrano far parte di qualcosa di molto più grande. Non c’è una forma che prediligo perché se fatte bene sono entrambe interessanti, e tra l’altro penso di aver provato entrambi i format.
Hai già presentato i tuoi lavori a diversi festival: l’ultimo – Amateur (2019) – alla Settimana Internazionale della Critica della Mostra del Cinema di Venezia,Loris sta bene al Lovers Film Festival e in numerosi festival nazionali e internazionali. Cosa ha rappresentato (e rappresenta) per te la partecipazione ai festival?
Innanzitutto, l’onore di essere selezionati a un festival è sempre una grandissima emozione, soprattutto quando si è emergenti. E fondamentalmente è uno dei motivi per i quali si lavora nell’arte, ovvero avere un pubblico: si esprime sé stessi e un proprio sguardo sul mondo per entrare in contatto con un pubblico. E i festival ti danno un pubblico, che può apprezzare o non apprezzare [ride, ndr] e nel caso in cui non apprezza, tu hai anche un punto di vista sul tuo lavoro; e questo lo rende ancora più interessante. Se il mio pubblico fosse composto solo da chi lavora con me, mia madre, mio padre e mia sorella che mi dicono bravo, bravissimo non crescerei. Quindi, sicuramente i festival sono preziosi per questo contatto con il pubblico. E poi possono nascere reti interessanti con gli organizzatori dei festival, con le altre persone che sono in competizione con te o che sono in competizione in una sezione differente, quindi si creano dei rapporti fra persone che hanno la tua stessa passione, e penso che questo sia molto bello perché ti arricchisce e ti fa crescere.
Cosa ti aspetti da questa edizione di The Next Generation?
Sicuramente quello che mi aspetto da The Next Generation è una novità. È una novità sia per me stare sul banco dei giudici (la pensavo un po’ alla X Factor! [ride, ndr]), o comunque far parte di una giuria, quindi già solo per questo il mio punto di vista sul festival sarà diverso. Ma soprattutto novità dal punto di vista audiovisivo. Per me che sono studente al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma ormai da due anni – e se, fra i pregi, posso rilevare un difetto, è una componente in qualche modo di “clausura”, in cui sento di respirare sempre la stessa aria: quindi secondo me sarà una bella boccata d’aria fresca potermi approcciare da giurato a nuovi stimoli visivi.
Una riflessione sul tema scelto per l’edizione di quest’anno: “Geografie”, ovvero mappature da(e)l mondo contemporaneo.
Trovo che proprio l’ambiguità del termine “Geografie”, o comunque il punto di vista interessante che si può avere sul termine, possa portare veramente a qualsiasi cosa e quindi a qualcosa di bello, che sia un film di video arte realizzato facendo la registrazione dello schermo da Google Maps o un corto girato tutto su un primo piano, la geografia di un volto, in cui il terreno da scrivere appunto sia quello di un volto.
Trovo che si possa prendere questo tema in tanti modi e sicuramente è proprio questo l’aspetto più interessante. Ritornando al discorso iniziale, la domanda che solleva è: Come circoscrivo in un quadro 16:9 la vastità di significato di questo tema?