Una riflessione di Giuseppe Nifosì, storico dell’arte e dell’architettura, sullo spazio di libertà offerto all’arte dall’untitled.
UNTITLED non è solo il tema con cui devono misurarsi filmmaker, artisti e artiste visive per partecipare a The Next Generation 2020. Vorremmo che fosse anche un’occasione di ricerca che porti alla luce riflessioni, sguardi profondi, sensibilità, suggestioni da parte di chi a vario titolo si misura con i linguaggi (audio)visivi.
In quest’ottica, nei mesi che ci accompagneranno fino al festival che si terrà a Bari a fine novembre, vorremmo raccogliere da più voci e differenti approfondimenti di ampio spettro che indaghino il tema “Untitled” per stimolare nuove riflessioni e nuove visioni.
Per questo abbiamo invitato esperte ed esperti nel campo del cinema e dell’arte, ricercatrici e studiosi* dell’immagine a ragionare sul tema e a raccontarci quello che “Untitled” suscita in loro.
Untitled di Giuseppe Nifosì
Un’opera d’arte ha normalmente un legame assai stretto con il titolo che la rende riconoscibile, sia quando questo è generico (pensiamo alle tante Madonne col Bambino o ai Crocifissi), sia quando il titolo la identifica in modo inequivocabile. Ciò capita per i capolavori che tutti conoscono, dove il titolo è anzi normalmente seguito dal nome dell’autore, come se questo diventasse parte integrante del titolo medesimo. Espressioni come “la Gioconda di Leonardo”, “il David di Michelangelo”, “Guernica di Picasso”, “L’urlo di Munch” circuitano opera, titolo e autore in maniera serrata. Ognuna delle tre realtà (opera, titolo, autore) rimanda immediatamente alle altre due. Guernica, nell’immaginario collettivo, è prima di tutto l’opera di Picasso, quella precisa opera di quel preciso pittore, e non la cittadina basca che l’ha ispirata. Il David è il vigoroso ragazzo scolpito da Michelangelo prima ancora che il personaggio biblico, e a tacere dei molti David che furono scolpiti e dipinti da altri autori, prima e dopo questo.
Dare un titolo a un’opera è come darle un nome, è come conferire ad essa una identità precisa, che la rende distinguibile, identificabile, come se si trattasse di una persona. A volte il titolo spiega l’opera, mostrando ciò che appare evidente a un primo sguardo: una Madonna col Bambino è quanto si vede. A volte rimanda a significati più profondi, più complessi, invita ad andare oltre l’immagine, ad attivare riflessioni, anche complesse. La famosa pipa di Magritte non è intitolata Pipa e nemmeno Questa non è una pipa, come recita la celebre frase che accompagna la figura, bensì Il tradimento delle immagini, giacché il quadro invita a indagare sulla natura stessa dell’arte e dei suoi fondamenti logici e linguistici. Così Una e tre sedie di Joseph Kosuth riflette sulle relazioni che intercorrono fra le cose, le loro immagini e le parole che le definiscono. Secondo Kosuth, l’arte può abbandonare il regno delle immagini per trasferirsi nel regno dei concetti e dei nomi.
L’immagine può essere abolita ed essere sostituita dalla parola: l’arte si identifica con il linguaggio. Il titolo potrebbe, paradossalmente, prendere il posto dell’opera stessa. D’altro canto, in Fontana di Duchamp è il titolo ad avere il compito di dare senso all’opera e anche all’operazione artistica ad essa sottesa: l’oggetto esposto nasce come orinatoio, acquistato dall’artista in un negozio di sanitari, e in fondo un orinatoio rimane, seppure rovesciato. Se non ci fosse il titolo, tutto apparirebbe molto più banale. Intitolando l’opera, conferendo all’oggetto-orinatoio il nome di fontana, l’artista lo trasforma, lo fa diventare altro da sé e, in questo, qualifica tutto il senso del suo fare arte, la sua identità stessa di artista.
La più tradizionale arte figurativa, la più radicale arte d’avanguardia, la più sofisticata arte concettuale non rinunciano ai titoli. Esiste, tuttavia, nell’arte anche il variegato mondo dell’untitled, che comprende tutte le opere “Senza titolo”, ossia non intitolate oppure quelle che adottano titoli molto generici, come i dipinti numerati di Mondrian o di Pollock, le “composizioni” o le “improvvisazioni” di Kandinskij, i quadrati di Malevič, i Black Paintings di Ad Reinhardt. Anche in questo caso, tuttavia, la scelta del non titolo non è affatto una forma di indifferenza, di insipienza, di mancanza di coraggio o di senso. Non intitolare un’opera è scelta artistica profonda e meditata quanto titolarla. Certamente, ci muoviamo qui nell’ambito di una dimensione assai intellettuale, e non a caso le opere senza titolo sono per lo più quelle novecentesche astratte, concettuali, quelle con finalità più fortemente spirituali o conoscitive: esse non fanno più appello alla capacità percettiva dello spettatore ma sollecitano e provocano i suoi processi più profondamente emotivi o mentali. L’untitled è uno spazio di libertà che ci viene concesso dall’arte (includendo in questa categoria pittura, visual art, fotografia, cinema, grafica), è esso stesso dimensione artistica, di volta in volta luogo dell’anima piuttosto che anfratto dell’inconscio. Le opere untitled spiazzano chi le osserva, lasciandolo da solo a gestire i propri sentimenti, i propri pregiudizi, le proprie certezze o incertezze culturali; sono finestre aperte sull’ignoto, varcate le quali, alla fine, il pubblico non può che cercare sé stesso. Ammesso che voglia farlo, ovviamente. Insomma, è il sublime, talvolta, la chiave di lettura più corretta per interpretare opere di tal genere.
Giuseppe Nifosì (1964) è storico dell’arte e dell’architettura nonché docente di storia dell’arte. Laureato in Architettura, è Dottore di ricerca in Storia dell’Architettura e dell’Urbanistica. Ha svolto per anni un’intensa attività didattica e di ricerca presso la Facoltà di Architettura di Firenze. In qualità di studioso e relatore, partecipa a seminari e convegni. Come esperto di didattica della storia dell’arte, tiene corsi e incontri di formazione. È impegnato nell’insegnamento e nella divulgazione della storia dell’arte e dell’architettura, attraverso pubblicazioni, lezioni e conferenze in tutta Italia. È autore di saggi, articoli, testi scolastici. Cura il blog e il podcast Arte Svelata.
* Seguiamo l’uso, poco comune in Italia ma talvolta impiegato in ambiti accademici internazionali, di sostituire il “maschile inclusivo” con un’alternanza della forma femminile e maschile di professioni, titoli e pronomi, quando non sia possibile impiegare una forma neutra.