Kandinskji, Mappelthorpe, Rothko: tre “Untitled” della storia dell’arte.
Una riflessione di Stefania Dubla, curatrice di arte pubblica
UNTITLED non è solo il tema con cui devono misurarsi filmmaker, artisti e artiste visive per partecipare a The Next Generation 2020. Vorremmo che fosse anche un’occasione di ricerca che porti alla luce riflessioni, sguardi profondi, sensibilità, suggestioni da parte di chi a vario titolo si misura con i linguaggi (audio)visivi.
In quest’ottica, nei mesi che ci accompagneranno fino al festival che si terrà a Bari a fine novembre, vorremmo raccogliere da più voci e differenti approfondimenti di ampio spettro che indaghino il tema “Untitled” per stimolare nuove riflessioni e nuove visioni.
Per questo abbiamo invitato esperte ed esperti nel campo del cinema e dell’arte, ricercatrici e studiosi* dell’immagine a ragionare sul tema e a raccontarci quello che “Untitled” suscita in loro.
Kandinskji, Mappelthorpe, Rothko: tre Untitled della storia dell’arte
di Stefania Dubla
1910. Kandinskji, Senza titolo. Musica, tono, colore. Empatia.
L’opera pittorica che per prima apre all’astrattismo nel mondo occidentale, segnando un punto di svolta decisivo per l’arte contemporanea, è un acquerello che non ha nome. Un Untitled (fig.1).
Ha così inizio non solo un movimento rivoluzionario che prende consapevolezza di sé nell’autodeterminarsi come astratto, ma da quell’opera ha avvio anche quella straordinaria intrinseca possibilità dei prodotti artistici di non avere nome, di non essere circoscritti entro un’unica chiave interpretativa. Del resto come può l’astratto, che come il vuoto tutto contiene, essere chiuso, fermo, fisso nel significato? Esso palesa la sua forza nella capacità empatica che hanno tono e segno di legarsi al primordiale insito nell’uomo, di far leva sull’inconscio che il linguaggio tradisce nello sforzo interpretativo che fa del pensiero, il quale è disordine – contro l’ordine razionale della grammatica –, insieme indistinto e simultaneo – opposto all’unidirezionalità consequenziale del periodo della frase – di presenti input sensoriali e di memorie individuali e collettive.
La lingua è l’intermediario razionale, funzionale alla logica del vivere comunitario, che appunto tradisce il pensiero, lo consegna (riprendendo il significato etimologico del termine) alla lingua che per fungere al suo ruolo principe lo organizza in una logica che non gli appartiene. Quante volte capita a tutti noi di compiere uno sforzo immenso nel riferire ad altri i nostri sogni notturni: nel racconto ci rendiamo conto che molti dettagli si perdono, non riusciamo a raccontarli, e nel momento stesso in cui tentiamo di narrarli essi vengono meno, svaniscono, li perdiamo definitivamente. Nel sogno spesso siamo simultaneamente noi stessi, i noi bambini e del futuro, e magari anche un altro: non c’è la coerenza che la ragione pretende per il suo ruolo sociale e nello sforzo di applicarla al sogno l’io razionale rinuncia alla comprensione del dettaglio obliterandolo. Quando il Kublai Kan chiede al Marco Polo calviniano il perché egli parla di tutte le città che ha visitato tranne una, la sua d’origine, Venezia, il viaggiatore gli risponde: “Le immagini della memoria, una volta fissate con le parole, si cancellano. Forse Venezia ho paura di perderla tutta in una volta, se ne parlo. O forse, parlando d’altre città, l’ho già perduta poco a poco” [1].
La serie degli Untitled nella storia dell’arte sfugge alla determinazione delle parole – soggette a un significato storico, che ha un certo valore oggi e un altro domani – per essere fissate in una memoria collettiva senza tempo. Un Senza titolo del 1973 di Robert Mapplethorpe (fig. 2), da J. K. Nelson indicato come il suo autoritratto [2], si compone per una sequenza fotografica che accosta tra loro sei polaroid. Al centro, statue di retaggio classico ritraggono due uomini, distanti per età e uniti da una torsione che è un abbraccio di amore e dolore insieme. Ai lati, cinge l’eternità del momento, affidata allo scatto fotografico e alla pietra del soggetto, la mortalità di due corpi in evoluzione, pienamente carnali e sensuali, fermati in due frame tra loro consequenziali che li vedono intenti a compiere un’azione nel tempo. Questa composizione mette in luce la coesistenza di condizioni tra loro opposte: eterno ed effimero, pietra e carne, immobilità e dinamicità, maschile e femminile, memoria collettiva e memoria individuale. A queste opere non si chiede di essere ragionevoli – di godere cioè di una coerenza che è vera solo nel loro ambito contestuale – ma di accogliere una pluralità di significati, specie se tra loro contraddittori, volta a superare le logiche mutevoli della storia.
Rothko affida a una serie Senza Titolo l’eternità di Dio e la moltitudine delle sue confessioni (fig. 3). È il 1964 e i de Menil commissionano all’artista quattordici dipinti da concepire insieme all’architettura di una cappella in Texas assolutamente eccezionale. Si tratta del primo centro al mondo ampiamente ecumenico, un luogo sacro aperto a tutte le religioni e che a nessuna appartiene: un luogo di preghiera per ogni fede. Rothko si suicida l’anno prima di assistere all’apertura al pubblico della cappella. Lascia in eredità opere enormi di un nero palpitante che accentua la sua profondità nelle sfumature di tutti quei colori che l’oscurità necessita per il raggiungimento del proprio tono. Il nero come metafora di infinito, di pluralità di agenti senza i quali gli sarebbe negata l’esistenza. Quanto avrebbero tradito i fedeli e il senso profondo della cappella se quelle opere avessero avuto un nome?
Eliminando l’intermediario della definizione per parola e forma in favore del solo colore, Rothko arriva a comunicare una forza sacrale dirompente che scuote l’intimo di ognuno prima che il pensiero approdi alla costruzione teologica della religione. Esattamente come in musica, egli comunica per empatia, etimologicamente dentro il pathos, nei meandri del sentimento, che è commistione di sensi e pensiero ingovernabile dalla ragione. Tentare di dargli un nome, definendolo, vorrebbe dire privarci di quella sana follia che tutto contiene, dove gli opposti convivono naturalmente, come in un campo quantico, per nostra assoluta meraviglia.
[1] Italo Calvino, Le città invisibili,Mondadori, Milano 2015, p.86.
[2] Mapplethorpe/Rodin, catalogo della omonima mostra presentata al Musée Rodin (Parigi) tra l’aprile e il settembre 2014, Édition Actes Sud, Arles 2014, p. 72.
Stefania Dubla (Matera, 1990) è una curatrice di arte pubblica. Ha vissuto a Venezia, Siena, Parigi prima di tornare a stabilirsi in Basilicata. Laureata in Storia dell’Arte e dell’Architettura contemporanea, ha lavorato presso il Musée d’Orsay, curato la mostra internazionale di architettura, fumetto e fotografia dal titolo “3rD Impact: il paradosso dell’identità”, e diverse azioni artistiche nello spazio pubblico tra Basilicata e Puglia. È stata cultural manager della Silent Academy di Matera Capitale Europea della Cultura 2019 e direttrice artistica del progetto MAAP Fiera di Arte Pubblica promosso e sostenuto dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del MIBACT.
* Seguiamo l’uso, poco comune in Italia ma talvolta impiegato in ambiti accademici internazionali, di sostituire il “maschile inclusivo” con un’alternanza della forma femminile e maschile di professioni, titoli e pronomi, quando non sia possibile impiegare una forma neutra.