La storia del cinema inizia con il cortometraggio. Lo è La sortie des usines Lumières con la cui proiezione il 28 dicembre 1895 si fa iniziare convenzionalmente la storia della settima arte e lo sono – solo per citare due pietre miliari degli inizi – Le Voyage dans la lune (1902, 15’) di George Méliès e The Great Train Robbery (1903, 11’), scritto, diretto e prodotto da Edwin S. Porter. Se la durata di queste prime pellicole è necessariamente determinata dai limiti tecnici dell’epoca, è però vero che posseggono le caratteristiche più peculiari del corto: la sperimentazione e la libertà.
Che cos’è dunque un cortometraggio?
Il paragone più diffuso e di successo prende le mosse dalla letteratura: il corto sta al racconto come il lungometraggio sta al romanzo; questa distinzione che definisce la sua misura (perché appunto in origine la distinzione si basava sul metraggio, la lunghezza della pellicola) ci dà conto, però, soltanto della sua accezione più logica di “forma breve” e nulla o poco ci dice sulla forma espressiva.
Alcuni parlano di corto come genere, fornendo anche in questo caso una categoria inadeguata, dato che la forma breve può essere declinata in una infinità di generi e per sua stessa natura, per dirla con le parole del critico e storico del cinema Gianni Volpi, «si frantuma, si disperde in una pluralità di direzioni, forme, formati e strutture, microuniversi linguistici, sfide comunicative. Una forma espressiva che sfugge a ogni assunto e richiede uno sguardo rivolto non a ciò che è stato, ma a ciò che comincia appena a prendere forma nel nostro sistema culturale». Ecco quindi un altro dei caratteri profondi del cortometraggio: la continua metamorfosi. «La varietà di ritmi, di apparenze, di approcci, di risvolti singolari, – scriveva ancora Volpi – svela e nasconde il segreto che ne è il cuore, quello di un cinema tra i più inquietanti e necessari: non specchio, ma sismografo di ciò che si muove».
Un’altra definizione insufficiente è quella, utilitaristica e strumentale, che vuole il cortometraggio come saggio di abilità tecnica, tappa obbligata che precede l’approdo al lungometraggio. Gli esempi che contraddicono questa interpretazione si sprecano: per citare il più recente, basti pensare al cortometraggio realizzato da Paul Thomas Anderson (dopo Il petroliere, Vizio di forma, Il filo nascosto…) per Anima, l’ultimo lavoro discografico solista di Thom Yorke. Quindici minuti di difficile classificazione (è un cortometraggio? un videoclip esteso? un visual album compresso?) di potenti immagini in movimento che mettono in discussione i limiti e le etichette in cui si vuole costringere ogni forma d’arte nel momento in cui si cerca di classificarla.
E allora, nella realtà contemporanea, il corto si configura come esperienza “espansa e illimitata” capace di «introdurre un’instabilità che non ha paura del caos e delle strutture dissipative in quanto utopie di un nuovo e più complesso ordine (…) il corto è da sempre il segno dell’attualità del cinema. Una sorta di detector di realtà e cambiamento».
In questo sistema discontinuo e in continua evoluzione, trova posto una molteplicità di linguaggi e vengono meno le regole canoniche della produzione e del consumo: l’accessibilità degli strumenti con cui realizzare e diffondere video ha distrutto definitivamente il concetto “sacro” di “irraggiungibilità dell’immagine” liberando la possibilità di espressione e moltiplicando le voci. Il cortometraggio dunque continua ad essere la forma attraverso cui esprimere nuove sensibilità, nuove realtà, nuove concezioni dei media avventurandosi verso nuovi territori. Superando i confini narrativi, il corto si spinge nella sperimentazione di mezzi e formati, attraversando e contaminandosi con le altre arti, con le quali lo lega – mai come in questi anni – un rapporto rinnovato e profondo in uno spettro infinito di possibilità.